Mangini Attilio

Attilio Mangini con Daniel Bec

opere proposte

biografia

ATTILIO MANGINI (Genova, 1912 , Genova, 2004) è stato un pittore e ceramista italiano.
Partecipa alla Resistenza durante la seconda guerra mondiale. Dopo aver frequentato l ´Accademia ligustica delle belle arti negli anni ´20, ed aver svolto vari lavori in gioventù tra cui l ´operaio nel porto di Genova, debutta a livello artistico nel 1946 con una mostra alla Galleria Genova. Ha avuto oltre cento mostre personali. Temi ricorrenti nelle sue opere sono il lavoro ; l’ambiente circense; la città di Genova con il suo centro storico e le opere industriali del porto; la Resistenza.
Tra le esposizioni che lo hanno visto partecipe o protagonista, si ricordano la XXV Biennale di Venezia del 1950.
La mostra del 1978 ad Odessa (Ucraina).
La mostra antologica al museo di Villa Croce a Genova nel 1992 e Palazzo Ducale di Genova nel 2002.

Ora mi si chiede perchè le giostre? Perchè il circo? Perchè la città ? Perchè tutti e tre i temi mi permettono di sognare, mi consentono di narrare fiabe con personaggi volanti, con cavallini bianchi scolpiti nel legno che vanno scomparendo, e che io provo una grande gioia a disegnare e dipingere. Perchè si dommanda qualcuno. No so rispondere. Forse l´unica risposta sta nella volontà di aver voluto mantenere la mia purezza di fanciullo, l´ingenuità (da non confondere con il mestiere) del racconto (come raccontare) che non so da chi e dove mi é stata tramandata.
Attilio Mangini 1986

critica

Se l’arte – lo dice Leonardo – è cosa mentale, se l’opera d’arte – lo dicono un po’ tutti coloro che dell’arte frequentano i feudi – è sempre inattuale perché anticipa sul proprio tempo e, per contro, è una favola mai conclusa, mi chiedo quanto può essere valido un giudizio nei confronti di un qualsiasi Artista allorché per giudizio non s’intenda uno spreco di parole, di loquacità. Un giudizio non dovrebbe conoscere pregiudizi. E non è facile. I pregiudizi, infatti, nascono all’interno di una cultura condizionata dai “corsi” dell’immediato e dai “ricorsi” storici; mode e miti, quindi. I puntelli più praticabili per una esegesi almeno incolpevole sono quasi sempre la ricerca (o pretesa) degli epigonismi e lo sfoggio (inutile anche se dotto) di quei “bouleversers” di cui la storia è scrigno ricchissimo e che hanno finito per abituarci a vedere in ogni evento epocale (anche artistico) una contrapposizione più dialettica che evolutiva. Ma è pensabile che l’empirismo altro non sia che una cambiale firmata da Locke in favore di Cartesio?
Lasciamo la filosofia e veniamo all’arte. Vogliamo accordare all’artista, perché tale, il privilegio di una facoltà, medianica e suggestiva, di vivere, pensare, manifestarsi autonomamente al di là dei condizionamenti, al di fuori della tradizione? A mio avviso si può “capire” un’opera d’arte solo immergendoci nell’immaginario dell’artista. Porsi davanti ad un quadro, ad una scultura, ad un affresco, è come inginocchiarsi davanti ad un altare. Il quadro, la scultura, l’affresco sono creature senza scheletro, nate dal pensiero. Ed è il pensiero (dell’artista) che in esse dobbiamo ritrovare, al di là della tela, della scorza lapidea, dell’intonaco.
Come si vede, prima di parlare di Mangini-pittore, ho voluto mettere le mani avanti. Ma se il percorso esegetico è quello a cui ho accennato, possiamo dire che Mangini, con la sua affabilità segnica e coloristica, priva di sotterfugi e di ruffianesimi, ci viene incontro, ci aiuta. ed infatti si capisce subito (anzi si sente subito) che questo pittore respira la vita a pieni polmoni, ne coglie tutte le sensazioni e le riversa sulla tela prima che una soverchia meditazione ne disperda il calore o le illanguidisca attraverso il filtro del ripensamento. Questo modo di fare arte, l’assenza di occulte intenzioni, in sintesi la solare “innocenza” manginiana, non frappongono oscuri veli all’indagine.
Dobbiamo però fare attenzione: Mangini è sì un istintivo (non di certo un naif) e peraltro riesce sempre a controllare la nota, il segno, il tono.
Qualcuno, caricando la “semplicità” manginiana d’intenzioni polemiche, ha detto che lo stile è anarcoide. Io, se richiesto di una definizione (peraltro inutile e fuorviante) direi che questa affabilità a tutto tondo è piuttosto l’espressione di una “aristocrazia popolare” in coerenza con una affermazione che ha avuto il suo inizio e la sua maturazione tra i fermenti generosi ed impazienti di quella periferia da cui Mangini proviene. E in cui la miseria ha (o per lo meno aveva) i segni di un’araldica docile ed avvolgente.
Ma su un altro tragitto, a sua volta impervio, Mangini ci soccorre: la lettura del suo discorso evolutivo. Tali sono la conseguenzialità e la coerenza che sarebbe sufficiente “indagare” l’ultima sua opera per entrare nel vivo di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non vorrei essere frainteso: non che il Mangini sia stancamente ripetitivo come, ahimé, lo furono e lo sono altri pittori pur illustri. Mutevoli sono anzi i suoi criteri ispirativi nonché la conseguente scrittura. Ma ogni quadro, ogni soggetto, indipendentemente dalla trascrizione segnica e cromatica, contiene tutte le esperienze che lo hanno preceduto e che in esso si assommano. Dichiaratamente o in trasparenza. Ci si chiede: dove vuole arrivare l’artista? Forse ad una sintesi di tutto o di quasi tutto in pochi tratti di quasi niente? Una penetrazione vorace che non rinuncia ai ricordi, alle esperienze e che talvolta solennizza perfino (e coscientemente) gli errori, se di buoni errori si tratta.
Mangini, dunque, è e rimane esclusivamente Mangini. Non è facile. E, sia chiaro, non dico che sia sempre positivo; Braque e Picasso, lavorando l’uno accanto all’altro, sperimentando a vicenda idee e tecniche, provocandosi continuamente nelle intuizioni e nelle scoperte, sono certamente cresciuti entrambi. Anche se sono rimaste intatte sia la immaginazione aristocratica di Braque che la pietrosa volontà di Picasso.
Mangini non si affaccia mai sul mondo degli altri. Chiedetegli perché dipinge. Sono certo che l’ottuagenario-ragazzo eluderà la risposta. Ma come poter concepire Mangini senza un pennello in mano? E lungi dagli abbagli di una tavolozza dove il lampo dei carmini si stempra nella sobrietà delle “terre”, illumina la neutralità del titanio, scalda la festosità delle lacche? Dapprima la “frase” manginiana fu estremamente laconica. Erano, già l’ho detto, i tempi della “periferia” della quale Mangini, passando dall’epigramma al racconto, divenne il rapsodo. L’artista, allora, privilegiava il disegno. I quadri erano fatti prevalentemente di spazi vuoti e al centro, come larve in uno stagno, patetiche figurette, omini strinati dalla fame e dal freddo. E già allora quei simulacri grotteschi, gli accenti acri e allusivi del colore, presagivano un discorso che sarebbe diventato sempre più incisivo.
E col tempo quegli spazi apparentemente spopolati si infittiscono di nuove presenze, forse meno disperate, ma più solenni ed anche più innocenti. Si raddensa l’atmosfera e in essa, come per incanto, spuntano torri e cattedrali in una dimensione onirica che denuncia sensazioni giunte probabilmente dall’infanzia, ma certamente vissute se è vero quanto dice Freud e cioè che l’arte non è mai ingenua né inconsapevole.
E per l’arte è un momento magico e magmatico: I debiti verso Cézanne e Matisse sono ormai saldati. Ma le esaltazioni del Die Brucke sono ancora nell’aria. Cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo. E Picasso, Kandinsky, YIee… Poi tutte le contorsioni, le evasioni, i sussulti di un’arte a rischio. Il rischio è quello di una soverchia intellettualizzazione: l’aveva preconizzato Apollinaire.
Mangini, imperterrito, continua ad essere se stesso. Cosciente, ma innocente. A mettere in croce i critici è proprio la sua innocenza. Virtù alla quale i critici non sono adusi. Ma se esiste una espressività calda ed una fredda a seconda non tanto dei caratteri formali del “far arte”, quanto della passionalità più o meno intensa dell’artista, la coerenza manginiana è certamente una sorta di scatola a sorpresa. Sono convinto che, potendola aprire, vi si troverebbe ogni ben di Dio: idee e poi ancora idee, ricordi di ogni tinta e di ogni peso, sogni sognati ad occhi chiusi e ad occhi aperti. E poi tutto un campionario di cose strane, impregnate di salsedine e di sentina: simulacri dei segreti che questa nostra città nasconde nei fondachi e negli angiporti e che Mangini conosce benissimo. Perché Mangini è l’ultimo “doge” di una pittura genovese non più inchiodata a sfondi svenevoli, a sontuose prospettive, bensì intrecciata in una quotidianità quasi da novella, da elzeviro. D’accordo: questo mare non è più il mare azzurro della Liguria che azzurro poi non lo è stato mai. E neppure il grigio delle ardesie. Questi colori, lirici e convenzionali, bisogna andare a cercarseli sulle cartoline d’epoca. Ma che importa?
Un momento magico, per Mangini, è segnato dall’irruenza sulla scena dei personaggi del circo. Un proscenio incendiato dalle luci della ribalta, uno sfondo metafisico dove le cattedrali navigano a mezz’aria come mongolfiere, dove i bastimenti solcano il cielo. Questi strani figuri sono di casa. A questo punto viene in mente Chagall, ma l’accostamento non regge. I “segreti” dell’ebreo errante non coincidono con quelli di Mangini.
C’è poi un altro momento in cui la tavolozza dell’artista si accende, i colori squillano, lacerano la tela, sfondano i contorni del disegno. E’ il periodo de “la locomotiva” e di certe “marine portuali” istoriate come vetrate gotiche.
Mangini per la sua “genuinità'”e capovolgendo il concetto che a questa parola dà il vocabolario, potrebbe definirsi un artista tentato dall’impossibile. Per ben altre ragioni lo furono anche i “cubisti”, ossessionati di rivelare, attraverso la pittura, un altro modo di guardare il mondo.
La più recente scoperta di Attilio Mangini è la poesia. Si può essere poeti in tanti modi, anche con i colori. Il poeta è insaziabile, il suo destino è contrassegnato da una eccitazione che non gli dà pace né tregua. In questo magma, sublime e pericoloso, Mangini ora c’è dentro fino al collo. Ed ha la convinzione di poter finalmente afferrare lo spazio con le dita. Cioè si considera miracolato. Forse lo è. La sua pittura, dapprima emblematica, poi corposa, talora stralunata, sta ora dissolvendosi in atmosfere sempre più rarefatte, non tanto allusive, quanto illusive.
Mangini, poeta. Troppo spesso abbiamo assegnato a questo artista recinti troppo angusti e soltanto adesso ce ne rendiamo conto. Ma Attilio Mangini ha saltato il muro. Dove vuole andare? La vetta di Elicona si allontana vieppiù che ad essa ci si avvicina. Questo il poeta, cioè colui che la poesia la fa con le parole, lo sa. Mangini no, e proprio per questo, forse, ci riusicrà.

Remo A. Borzini